Viaggio da sola a New York (part. 3)
Ah ma siete ancora qua a leggermi? (QUI la parte 2) Io speravo di potervi raccontare tutto in poche righe. Ma proprio non ce la faccio… Non odiatemi. Ma con New York è impossibile.
Ma torniamo a quel pomeriggio. Dove mi avevate lasciata? A vagare per Central Park sicuramente…
Ecco beh, dopo quella della biblioteca, arriva la seconda idea geniale della giornata: andare ad Harlem a vedere il Rucker Park. (Per chi non mastica basket, è un campetto storico che volevo vedere assolutamente).
Essendo ad Harlem, mi era stato detto ‘Vai tranquilla, è come la stazione di Padova, se ci vai di giorno non c’è nessun problema!’. E andiamoci di giorno allora.
A piedi era infattibile, in metro mi seccava essendoci il sole, prendiamo il bus quindi… Ogni 15 secondi una fermata, ogni 15 secondi saliva gente sempre meno raccomandabile.
Allora, premetto che non sono razzista ovviamente e che anzi Martin Luter King mi stava simpatico, stima proprio… ma ho visto fin troppi film per non sapere che fine fa’ una ragazza ad Harlem da sola.
Io ve lo giuro, dopo dieci fermate l’autista continuava a lanciarmi occhiate dallo specchietto del tipo ‘Ti sei persa o sei semplicemente idiota?’ e io rispondevo con le mie occhiate da ‘Entrambe le cose zio!’.
Verso le ultime fermate l’ansia aveva iniziato a salirmi. E non poco.
Già mi immaginavo come nei film, io rincorsa che scappo per quei vicoli strettissmi tra i palazzi in mattoni con le scale antincendio a vista, rovesciando cassonetti, fin quando arrivo in un vicolo chiuso da una rete che dovrei saltare per salvarmi… e li niente basta, mi arrendo perché non sono così agile. E allora Studio Aperto farà un servizio su di me, con i miei selfie più brutti… Ok basta scusate, a volte mi lascio trasportare troppo.
Comunque alla fine sono arrivata al capolinea, mi alzo per scendere con il cuore in gola e la vecchina di colore, seduta di fronte a me si gira e mi dice “Ma tu sei proprio sicura che dovevi scendere qua?”. Gelo nel sangue.
O mio Dio, morirò! Morirò e non avrò mai detto al tipo che mi piace, che lo amo.
Beh ormai dovevo scendere per forza. Scendo, ma del campetto manco l’ombra, mi guardo intorno, cerco con il telefono… Nulla. E adesso? Mi guardavano tutti. E sicuramente non perché io meritassi di essere guardata.
Sconsolata attraverso la strada per riprendere l’autobus e tornare indietro. Delusissima. ED ECCOLO!
Mi sono seduta sugli spalti, quatta quatta, per non disturbare. Ma sono durata giusto il tempo di rendermi conto che mi mancava solo una grossa freccia luminosa sopra la testa che indicasse la presenza della classica ragazza bianca, vestita da collegiale, seduta sugli spalti a vedere una partita di basket amatoriale in una tra le zone più malfamate della città. FUGA!
Risalgo sul bus per tornare. L’autista era lo stesso dell’andata e quando sono salita mi ha guardata e ho capito che aveva trovato risposta alla sua precedente domanda. Sono idiota si!
L’ho salutato con un cenno di capo che spero abbia percepito come un ‘Che questa cosa rimanga tra noi due, grazie!’ e sono scesa sulla Fifth Avenue. La via dello shopping. Il centro del mondo.
Non credo di essere in grado di spiegare cosa possa essere per una donna, la Fifth Avenue. Soprattutto sotto Natale.
H&m, Victoria’s Secret, Tiffany.. tutti uno dietro l’altro senza nemmeno darti il tempo di riprendere fiato da quello precedente.
So che i maschietti difficilmente potranno capire, ma è un po’ come per voi riverdere il gol di Roby Baggio in Italia-Cecoslovacchia o per i cestisti i 13 punti in 35”di T-Mac. Non so se ho reso l’idea.
Comunque dopo aver dato fondo alla carta di credito sono tornata in albergo. Secondo giorno e già iniziavo a pensare a come avrei fatto a far stare tutto in valigia.
Ma non era il momento di preoccuparsene. L’unica cosa a cui pensare in quel momento era farmi la doccia e andare alla ricerca di quel ristorante italiano nell’East Village, che mi avevano consigliato.
ALT! So cosa state pensando, “Questa va’ a NY e cerca ristoranti italiani”. No, non è come sembra. Non ci sono andata per la cucina, bensì perché mi avevano detto che avrei potuto incontrarci giocatori NBA.
Ed è vero, confermo! Solo che io sono andata a cena la domenica sera e Belinelli il lunedì invece. Perché non sia mai che i ‘𝓜𝓪𝓲𝓷𝓪𝓰𝓲𝓸𝓲𝓪’ mi lascino in pace almeno in vacanza.
(Marco, se mi leggi, ero io quella sera a farti fischiare le orecchie!)
Ma in ogni caso, come avviene sempre quando pensi di sapere cosa ti aspetta, l’universo ti lancia una palla curva. E quindi devi improvvisare. Sono arrivata al locale (Via della Pace), senza grandi aspettative. Convinta che avrei passato una piacevole serata, sorseggiando vino, seduta al bancone ad osservare lo svolgersi di una classica serata newyorkese.
Non avevo minimamente considerato l’ipotesi di poter conoscere qualcuno.
Entro in questo localino, piccolo, ma proprio quello che t’immagini di trovare a New York. Luci soffuse, piccoli tavoli con candele e atmosfera che ti fa venir voglia di sederti al bancone a raccontare i cavoli tuoi al barista. Bellissimo!
Prendo posto al bancone si, ma con vista sulla strada.
Arriva subito il proprietario, un ragazzo di Roma, laziale fino al midollo e anche un po’ fuori di testa. Ma dopo i classici convenevoli tra connazionali, mi porta il mio bicchiere di vino e questo è bastato per starmi subito simpatico.
Ed è così che funziona no?! Tu sei li, seduta con in tuo bicchiere di vino, i tuoi pensieri, guardando fuori New York che si prepara per la serata e pensi che sei proprio dove vorresti essere, senza desiderare di più.
Finché non ti si siede un ragazzo vicino. Ordina da bere in italiano. E allora cominciate a fare due chiacchiere.Il bicchiere di vino si trasforma in una bottiglia.Le due chiacchiere si trasformano in una conversazione. E la piacevole cena tranquilla si trasforma in «Cavolo ma sono quasi le 2 e mezza?!».
Lo so è incredibile. Ma la vita a volte ha questa capacità di sorprenderti proprio quando ti aspetti che più nulla possa riuscirci.
Sarà stato il vino, New York o la mia solita incoscienza, fatto sta che ho acconsentito che mi riaccompagnasse in albergo. Anche perché è vero che New York è una città parecchio sicura, ma avevo la netta sensazione di aver consumato tutta la mia dose di culo mensile ad Harlem al pomeriggio. E non volevo rischiare.
Il vino comunque ha avuto la meglio e quindi in metropolitana ci siamo baciati. Per tutto il tragitto a dir la verità.
Ed è li che ho finalmente capito cosa intende la gente quando dice «Eh ma se vuoi veramente imparare una lingua nuova devi andare all’estero.»
In ogni caso è stato molto gentile e carino per tutta la sera, ma non abbastanza da convincermi a lasciargli il numero. Quindi ho voluto fare la misteriosa del tipo «Se vorrai, in qualche modo mi ritroverai comunque», ma che in realtà tradotto era “Ascolta è stata una bella serata, un limone non si nega a nessuno ma noi non siamo i protagonisti di Serendipity. Addio”. E sono rientrata in albergo.
Sono crollata a letto, ripetendomi “Fa’ che domani non me lo ritrovi davanti all’albergo! Fa’ che domani non me lo ritrovi davanti all’albergo! Fa’ che domani non me lo ritrovi davanti all’albergo!”.
La mattina seguente, a parte un epico mal di testa da vino, non ho avuto sorprese. E potevo continuare la mia vacanza da eremita, in cerca della pace interiore.
Va bene, sto scherzando, non giudicatemi!
Ma torniamo a New York City, perché anche se non sembra, ero solo al terzo giorno.
Non avevo programmato ancora nulla per la giornata, l’unica cosa sicura era che avevo veramente fame. Cercando un posto per la colazione, ne ho trovato un altro “So cute”. (‘Cafè Un, Deux, Trois’. Segnatevelo. )
Avevo ancora un po’ di postumi, quindi colazione abbonante, aggiornamento del diario sulla sera precedente e… ho una nuova giornata davanti, cosa potrei fare?!
Intanto godermi la colazione, godetevela con me.. al resto ci pensiamo la prossima volta.
P.S.: Ah, alla fine sono sopravvissuta ad Harlem, ma il tipo che mi piace ancora non sa nulla!
per leggere la parte 4 QUI
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